L’arte del capitalismo
- politicamenteit
- 19 gen 2022
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Definire l’arte una semplice riproduzione sarebbe
riduttivo, poiché le manifestazioni artistiche, di ogni
genere, sono frutto dell’aggiunta di un altro elemento
indefinibile, è questo a suscitare nell’osservatore
meraviglia e nel migliore dei casi, commozione.
L’opera d’arte, per essere considerata tale, deve quindi
presentare degli elementi oggettivi, cosicché possa
emozionare e giungere all’unanimità, la vera arte,
dunque, è linguaggio universale e grammatica umana,
è strumento conoscitivo, permette di prendere
coscienza della realtà e scoprire il mondo, con gli occhi
di colui che ha tanta sensibilità da poterlo
rappresentare: l’artista.
Alcune tipologie artistiche, tuttavia, richiedono la
contemplazione dell’opera per un tempo prolungato e
continuato, non si può pensare di ascoltare la Nona
Sinfonia in un paio di minuti, né di leggere la Divina
Commedia in un’ora o di visitare la Galleria Degli Uffizi
in una giornata, in sintesi, l’esperienza del bello
richiede tempo, ed è qui che si presentano i primi
problemi per l’individuo medio del ventunesimo secolo.
L’individuo medio non ha mai abbastanza tempo e
pagherebbe per averne in più, la sua vita ha una natura
corriva, incessante, irrefrenabile, la sua mente è vuota,
l’unico pensiero fisso e martellante che ha è di essere
produttivo al massimo, sacrificando tutto per l’unica
cosa che conta: il Dio Denaro, non può vivere senza di
esso, è disposto a tutto per accumularne il più possibile e,
da bravo capitalista, sarebbe abile nel vendere
persino la sua anima se questo gli permettesse di
possedere tutto ciò che è acquistabile.
Ovviamente, essendo l’uomo strettamente legato
all’arte come sopracitato, questa subisce,
ingiustamente e involontariamente la stessa
degenerazione che coinvolge il piccolo e ingenuo uomo
contemporaneo. La contemplazione estetica diviene
impura, contaminata dal rapporto di possesso che
l’uomo sviluppa con gli oggetti che possiede e che lo
possiedono, la sua osservazione non è più
disinteressata.
Le multinazionali, il cui unico scopo è la massima
produzione per il massimo profitto vanno a nozze con
questa deformazione: ed ecco che in un baleno l’arte si
adegua alla realtà contemporanea diventando
immagine standardizzata, mera riproduzione,
immediatamente disponibile, spesso volgare, lo scopo è
che susciti una reazione immediata (l’opposto della
riflessione graduale che può essere suscitata dalla
contemplazione) poiché deve essere il più semplice
possibile cosicché sia fruibile (comprensibile e
comprabile) da tutti gli inetti che, dal loro punto di
vista, non possono permettersi di dedicare un solo
secondo in più a cose futili come la cultura.
L’ ”arte” del capitalismo e della rivoluzione industriale è
prodotta in serie con conseguente meccanizzazione del
processo produttivo, non è creata dalla fatica di
un’artista, non è più un pezzo unico e, ovviamente,
ha un bassissimo valore economico. Tutto questo perché
l’omuncolo non si accontenta più di apprezzare la
bellezza (che, come diceva Dostoevskij “salverà il
mondo” a patto che al mondo importi di essere salvato)
ma la vuole possedere, e in questo, viene
immediatamente assecondato e accontentato dalla
società del consumo, che non aspettava altro che
questo burattino privo d’ identità.
Inevitabile è, l’abbassamento del gusto di uomini e
donne che vedono la bellezza solo in ciò che è stato
costruito a tavolino per loro, una bellezza smaccata,
sfacciata, evidente e patinata, l’unica che sono in grado
di apprezzare, ormai perduta la sensibilità per le cose
sottili, tenui e meno appariscenti.
Nonostante ciò, non tutto è perduto, presto ci sarà una
presa di coscienza da parte dell’uomo medio che,
aggregandosi a quello più valido culturalmente,
ripudierà tutte queste cose meschine, e riprenderà ad
osservare la bellezza di un tramonto senza sentire
l’impellente necessità di possederlo con uno scatto
dell’iPhone, godendosi davvero l’arte che la natura e gli
artisti, quelli veri, offrono da sempre e per sempre,
dopotutto, il sole, non smette di sorgere per nessuno.
di Melissa Santin
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