LA CINA E L'ARTE DELLA CRESCITA
- politicamenteit
- 9 apr 2022
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Tra le sfide più importanti di questo millennio vi è di certo quella tra occidente ed oriente. La corsa alla ricchezza e al primato di superpotenza muove miliardi di persone e oggi più che mai diventa fondamentale capirne i meccanismi di base. Lo facciamo approfondendo alcuni concetti chiave e la loro applicazione nel cosiddetto “miracolo cinese”. Lontano dalla frontiera tecnologica, ovvero il livello dei paesi più ricchi del mondo (tra cui potremmo prendere ad esempio gli Stati Uniti), sono tre i fattori che alimentano il motore della crescita economica: gli investimenti fisici, la riallocazione e l’imitazione ed adozione di tecnologia altrui. In primo luogo il forte investimento in capitale fisico, con la creazione di macchinari, edifici, infrastrutture e la meccanizzazione del processo produttivo porta ad aumentare la produttività e il PIL. In secundis la riallocazione della manodopera, della produzione e delle risorse permette uno sfruttamento del potenziale di lavoro e della ricchezza sopita delle varie zone economiche di un paese. In esempi come Cina o Russia questo è chiaro, dove aree che crescono industrialmente assorbono da regioni invece più depresse o ricche di risorse. Infine la possibilità di adottare la tecnologia e la conoscenza di paesi più sviluppati, ricorrendo anche all’investimento straniero, permette di saltare momentaneamente il percorso di innovazione e di inserire questi strumenti nella propria industria. Andando avanti tuttavia questi mezzi non bastano più e la crescita rallenta. Avvicinandosi alla frontiera tecnologica l’imitazione diventa meno efficace, lo sfruttamento del potenziale umano e di risorse cala la sua rendita ed è necessario valorizzare nuovi aspetti: l’educazione, il capitale umano e l’innovazione. Se per favorire la crescita quantitativa infatti è in parte sufficiente risolvere i problemi di coordinamento, superare le frizioni creditizie e contrattuali e spingere i “campioni nazionali”; per ottimizzare la crescita innovativa invece sono necessari nuove stratup, lo sviluppo finanziario e la concorrenza che innesca la cosiddetta “distruzione creativa”. Quest’ultimo concetto risulta fondamentale nel processo che spinge un’economia dal fine quantitativo (che si traduce poi in produzione massiccia, sfruttamento incondizionato del lavoro e dell’ambiente, replicazione di manifattura a livelli di qualità bassi o di materie prime da esportare in quantità ingenti) a quello qualitativo (hi-tech, servizi, modello statunitense della Silicon Valley). Infatti la distruzione e la conseguente riconfigurazione degli ordini economici è alla base del ciclo che permette l’evoluzione della produzione verso standard migliori, l’abbassamento dei prezzi, la distribuzione della ricchezza e di prodotti ottimizzati. Lì dove costantemente una nuova impresa può mettersi in gioco con un’idea originale, in condizioni di parità nella concorrenza, il ruolo di maggior produttore può essere ceduto più volte, in favore del progresso.
Inoltre lo sviluppo finanziario, quindi poi dei crediti e delle banche, permette investimenti che irrobustiscono le economie, assieme al miglioramento progressivo dell’educazione, fucina di talenti e idee. Molte, se non tutte, delle ultime caratteristiche elencate sono improbabili o impossibili in un’economia pianificata e in presenza di istituzioni chiuse. Se infatti le grandi crescite programmate sono state sorprendenti in nazioni dall’alto potenziale industriale come la Cina e l’URSS, tuttavia sul lungo periodo hanno sempre segnato un crollo e spesso un’implosione a livello politico. Nell’andamento storico cinese addirittura, nonostante un miglioramento generalizzato dovuto all’accentramento politico dopo la guerra civile, la collettivizzazione inizialmente non ha che provocato disastri. La frenetica corsa alla creazione di una base industriale portò ad un’enorme mobilitazione di risorse e produzione incontrollata di pessima qualità. L’adattamento frettoloso alla realtà del motto marxista “Da ognuno secondo le proprie possibilità ad ognuno secondo i propri bisogni” si materializzò in un grande balzo all’indietro, nel caos economico, una decrescita del 50% della produzione tra il 1959 e il 1962, alla carestia dovuta alla collettivizzazione dei terreni agricoli e alla morte di fame, si stima, di 30 milioni di persone. Un disastro che ancora pesa nei libri di storia. Tuttavia ad oggi la Cina è tra le potenze più influenti del pianeta, come ha fatto ad uscire in così poco tempo dal terzo mondo? Un primo propellente furono le riforme della fine degli anni 70’, in primis la decollettivizzazione dell’agricoltura. In secondo luogo grazie ad una serie di politiche industriali che hanno favorito le regioni chiamate “zone economiche speciali” e la privatizzazione delle imprese del settore manifatturiero. Queste riforme hanno messo in atto un processo di riallocazione delle risorse produttive (dal piano rurale a quello urbano e nel settore dell’industria con le privatizzazioni), spinte da una forte crescita produttiva da un lato e da un’espansione salariale contenuta rispetto all’aumento di produttività dall’altro. La crescita industriale in particolare è stata favorita da un’importazione di capitale e tecnologia estera, permessa per la prima volta da un’apertura ideologica e politica da parte del partito comunista. Da un punto di vista politico infatti la competizione all’interno dell’istituzione autocratica nella gestione del potere ha invogliato la crescita quantitativa, creando incentivi nella leadership e nella gestione pragmatica più che ideologica (al contrario di quanto fatto in URSS). In particolare riguardo alle zone economiche speciali, qui si è intervenuti con una serie di normative atte a liberalizzare le imprese, invogliando l’affluenza internazionale e stimolando un mercato progressivamente più libero. Questa crescita si è diffusa nei territori limitrofi favorendo lo sviluppo e la ricchezza tra la popolazione. Naturalmente questo fu un processo graduale, con la prima tolleranza delle aziende straniere, poi di quelle semi-illegali e infine con l’esplicito appoggio (1997) alle aziende private di maggior successo in competizione con quelle pubbliche. Quest’ultima apertura fu di grandissima portata, trascinando la percentuale di manodopera nel settore privato dal 5% all’oltre 60% tra 1998 e 2010. In questo stesso periodo si ebbe una crescita di produttività nel privato del 20% (nel pubblico la metà). Creare impresa privata in Cina tuttavia è relativamente complicato, con un iter burocratico lungo (secondo la Banca Mondiale) minimo sette mesi, ai livelli della Rep. Dem. del Congo. Tuttavia le eccezioni sono numerose e vengono determinate dalle scelte delle amministrazioni locali del PCC, che selezionano in base alle aspettative di successo e alle “bustarelle” migliori. Un esempio tra i tanti è l’industria (taiwanese) Zhenzhou, la quale nel giro di pochi mesi ha iniziato la sua produzione nella provincia di Henan, nonostante la sua provenienza, favorita dal massivo potere contrattuale. Questa capillarità del potere non è solitamente presente nei paesi del terzo mondo ed essendo tollerata spinge ad una competizione tra governi locali sulla vendita di monopoli, i quali non bloccano la concorrenza a livello nazionale come avvenne ad esempio in URSS (in altri paesi a basso reddito, anche pagando, i governatori non possono garantire nulla). Paradossalmente dunque la tolleranza della diffusa corruzione è stato il motore del progresso. Tuttavia i contro sono molteplici, essendo i nuovi imprenditori integrati sempre più nella politica del partito, essi tendono a respingere l’idea di una democratizzazione (come spiegato, questo porterebbe al crollo dei privilegi monopolistici e alla distruzione creativa anche a livello di potere istituzionale). Inoltre, se inizialmente questo sistema garantisce una crescita, nondimeno l’impossibilità di creare nuove startup e quindi il “level playing field competition”, la premiazione dei contratti in sfavore dei meriti e la profonda dipendenza dalle tangenti potrebbe portare ad un blocco nel miracolo cinese. Un primo segnale lo si ebbe nel 2009, con un enorme investimento pubblico in ambito infrastrutturale e creditizio, per salvaguardare l’economia dalla grande recessione. Sebbene sul breve periodo questo ebbe effetto, ciononostante portò inevitabilmente ad un arresto nel passaggio da economia quantitativa a qualitativa, poiché la maggior parte dei finanziamenti furono in cementificazione, costruzioni, miniere e amministrazioni locali (invece che piccole imprese e innovazione), favorendo ulteriormente la corruzione e il capitale immobilizzato (con l’estremizzazione nelle cosiddette “cattedrali nel deserto”, enormi complessi abitativi vuoti). L’economia venne dunque sovrastimolata e il tasso di produttività calò drasticamente. In questo scenario l’ultimo tassello è la salita al potere nel 2012 del nuovo segretario Xi, il quale attuerà paradossalmente un’aggressiva politica anticorruzione e di chiusura al pluralismo, con una crescente censura totalitaria e antidemocratica. Nonostante ciò Xi riscuote un buon successo tra la popolazione, ergendosi di fatto a fustigatore dell’immoralità nel partito. La visione di Xi è più conservatrice, reazionaria e vicina ad un’idea di capitalismo di stato più che di libero mercato. Nonostante questa prospettiva susciti seri dubbi tra gli economisti (The Economist in primo), alcuni fattori lasciano intendere che la brusca frenata della Cina in stile URSS non sia alle porte (ad esempio l’ottima evoluzione del rapporto PIL/ricerca e sviluppo che oggi supera l’Italia stessa e raggiunge il valore medio UE, la transizione da un’economia di manifattura ad una di servizi o l’investimento in capitale umano e la qualificazione della forza lavoro, con un aumento del 25% di immatricolazione universitaria dal 1995 e oltre 6,5 milioni di laureati nel 2014). Insomma, il nuovo impero di Pechino, pur con gravi instabilità latenti, si propone come modello alternativo a quello occidentale e studiarlo oggi non può che aiutarci ad affrontare le sfide del domani. (Questo articolo è tratto dalla lezione “Crescita economica cinese: passato, presente e futuro” del Professor Fabrizio Zilibotti all’università USI, ordinario di macroeconomia all’Università di Zurigo e direttore dell’UBS Center of Economics in Society)
Articolo di Gabriele Doria
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