PARERI DAL SOTTOSUOLO - Pace, condizionatore o un po' di pragmatismo?
- politicamenteit
- 15 apr 2022
- Tempo di lettura: 4 min
Con la puntata di oggi proviamo ad analizzare la situazione attuale e le
prospettive a medio termine riguardo il gas russo e un possibile embargo ad
esso applicato. Risulta chiaro che le affermazioni del premier Draghi, “La
pace o il condizionatore?”, abbiano suscitato ilarità, ma varrebbe la pena (e
ancora una volta l’opinione pubblica ha mancato l’occasione per farlo) di
farsi un’idea sulle reali conseguenze di una scelta politico-economica o
dell’altra e del rapporto costi-benefici derivante.
Partiamo da uno degli studi più completi a riguardo: l’analisi di scenario per il
sistema elettrico italiano in seguito alla crisi russo-ucraina, stilato dalla
Fondazione Eni Enrico Mattei a inizio marzo di quest’anno.
Il conflitto alle porte dell’Unione Europea infatti costituisce un fattore di
rischio immediato per la sicurezza del sistema energetico nazionale. Le
sanzioni imposte alla Russia, il danneggiamento di infrastrutture energetiche
in territorio ucraino, il rallentamento dei flussi dall’est e l’idea di un futuro
azzeramento dell’import russo del gas e delle altre forme di combustibile
possono comportare un problema di pianificazione energetica nell’immediato
periodo.
Tramite alcune simulazioni lo studio ha evidenziato quattro criticità
fondamentali: l’impossibilità di importare energia dai paesi europei limitrofi
(anche loro sarebbero nella stessa condizione d’emergenza), un aumento di
prezzo rispetto allo scenario di normalità di 150€/MWh (con un prezzo medio
tra i 390 e i 400 €/MWh in base alla disponibilità dell’idroelettrico), la
necessità di utilizzare una buona parte della disponibilità in termoelettrico,
razionando nel settore industriale, e un aumento delle emissioni di oltre 30
milioni di metri cubi per via dell’estensione delle centrali a carbone.
Partiamo però dai numeri degli scorsi anni.
Ad oggi importiamo, in media, il 40% del gas dalla Russia (grazie ad un
lungo processo storico, spinto anche dal desiderio volto a ridurre le
emissioni e l’inquinamento negli ultimi due decenni). Nel 2021, in Italia,
abbiamo consumato 73,3 miliardi di metri cubi di gas, ripartiti in 33,3 miliardi
per usi civili, 14,1 per uso industriale e 25,9 per generazione termoelettrica.
L’andamento dei consumi è stabile da almeno un lustro e, 2020 con chiusure
a parte, dipende principalmente dalla rigidezza degli inverni.
Gli stoccaggi in particolare giocano un ruolo importante nel mantenere
costanti i prezzi tra inverno ed estate (in inverno c’è ovviamente più richiesta,
quindi costi maggiori), con 17 miliardi di metri cubi di cui 4,6 strategici,
ovvero in grado di rilasciare il gas accumulato nei mesi caldi.
La scelta dei fornitori è principalmente legata a variabili economiche e risulta
piuttosto diversificata già in partenza. Nel corso dell’anno passato abbiamo
importato 28,2 miliardi di metri cubi dalla Russia, 21 dall’Algeria (in aumento
consistente dal 2020), 10 circa di LNG (gas naturale liquido dagli States o
Qatar), 2 dal Nord Europa, 3 dalla Libia, 7 dall’Azerbaijan e 3 di produzione
nazionale. Il computo totale è di 74,4 miliardi, da cui detrarre le riserve.
Quest’anno siamo stati in grado di racimolare 6,6 miliardi in stoccaggio
strategico ma questo potrebbe non bastare. Nello scenario proposto infatti si andrebbe a tagliare ogni import dalla Russia, massimizzare quello da Algeria
e Libia, azzerare quello dal Nord Europa (in vista di meccanismi di solidarietà
europei), aumentare il GNL, mantenere quelli dall’Azerbaijan (difficile
aumentarli se servono anche a Grecia e Balcani) e incrementare lievemente
la produzione nazionale.
Ecco che dunque arriviamo ai risultati finali ipotetici. L’aumento con l’Algeria
sarebbe di almeno tre miliardi quest’anno, gli altri sei aggiuntivi all’anno
promessi dal governo nordafricano arriverebbero solo nel 2023 e tre di questi
sarebbero comunque in GNL (qui il problema dei rigassificatori, tre in totale
installati con una capacita di 15 miliardi di mc, solitamente lunghi da
installare. Vi è quindi criticità dunque nell’idoneità di riconversione del
sistema italiano). Aumenterebbe il GNL infatti anche dal Qatar,
accompagnato in più però da un buon aumento del prezzo. Potremmo
passare da 3,2 a 6,7 dalla Libia e 7,1 a 7,5 dall’Azerbaijan oltre che
incrementare di uno 0,4 la produzione nostrana e attingere ai 4 degli
stoccaggi. Tuttavia il risultato finale non sembrerebbe soddisfacente. La
quota finale si aggirerebbe infatti sui 60 miliardi di metri cubi, al di sotto di
almeno dieci (secondo le aspettative migliori) rispetto alla richiesta media.
Una prima proposta in merito, ventilata dalle voci ambientaliste, è un
incremento dell’utilizzo di rinnovabili da quest’anno (eolico e fotovoltaico in
particolare), tuttavia i tempi di installazione sono lunghi, la quota di impianti
non riuscirebbe a soddisfare in tempo le richieste e il fatto che questo genere
di fonti energetiche dipendano fortemente dalla stagionalità e dalle
condizioni atmosferiche non aiuta. L’aleatorità delle fonti rinnovabili
determina infatti forti oscillazioni nei prezzi e l’instabilità energetica che ne
consegue. Possiamo pensare di coprire il buco del gas con una
programmazione massiccia di rinnovabili ma non è detto che poi l’energia
arrivi effettivamente (al contrario del gas o del carbone, i quali una volta
bruciati producono l’energia che si vuole). Ragionare in questi termini
dunque potrebbe risultare disastroso, perlomeno sul breve termine.
Dopodiché vi è l’utilizzo delle centrali a carbone, osteggiato in ogni modo
possibile proprio dai movimenti ambientalisti e spinto con convinzione
invece dal governo. Anche il carbone tuttavia potrebbe non essere la
risposta definitiva. È utile sottolineare infatti che cinque centrali su sette sono
già operative ed erogano ingenti quantità di elettricità per via dei prezzi
particolarmente elevati del gas. Dunque non sarebbe saggio sovrastimare
l’apporto del carbone, nonostante se ne possa incrementare l’utilizzo.
Infine, ed è notizia delle ultime ore, una possibile fornitura da una serie di
paesi africani, verso i quali Draghi e i suoi viaggeranno nelle prossime
settimane. Ovviamente queste possibilità sono ancora da confermare.
Insomma, la situazione è complicata, con ogni probabilità in caso di
cessazione dei rapporti con la Russia si arriverà ad un razionamento e ad
una pianificazione energetica in grado di soddisfare le richieste minime dei
cittadini e dell’industria. Un aumento dei prezzi porterebbe inevitabilmente ad una contrazione del PIL e ad una conseguente diminuzione della richiesta
stessa di gas, ma i modelli sono ancora in fase di studio.
La scelta da intraprendere è di certo etica (Parafrasando Draghi: continuiamo
a finanziare con milioni di euro al giorno la macchina bellica russa, in barba
ad ogni nostro tentativo di soccorrere l’Ucraina, o rinunciamo a parte del
nostro benessere per non venir meno ai nostri valori e accelerare una
possibile tregua?) ma anche economica e pragmatica. La scelleratezza nelle
scelte ideologiche e di interesse della politica (e di noi elettori ovviamente)
riguardo l’approvigionamento energetico del nostro paese ci ha ridotti ad una
dipendenza significativa dagli scenari geopolitici. Ad oggi i paesi europei
meno colpiti da questa crisi sono proprio quelli che anni fa hanno intrapreso
strade alternative, come le rinnovabili e il nucleare. La realtà, come sempre
ripetiamo, è complessa, ma è proprio nel momento più critico che le lezioni
imparate possono divenire fondamenta per il futuro.
Qui di seguito lo studio della FEEM: https://www.feem.it/m/
publications_pages/brief02-2022.pdf
Articolo di Gabriele Doria
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