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UCRAINA: SIAMO SUCCUBI DEL NOSTRO DESTINO?


Mentre scrivo le tensioni al confine russo con l’Ucraina continuano a salire.

Per la prima volta dopo decenni lo spettro della guerra si aggira per l’est

Europa e noi, che siamo lì alla porta ad osservare impotenti, non abbiamo

voce in capitolo.

La bramosia imperialista russa, di una nazione che di fatto non ha mai

conosciuto altro che autoritarismo e ricerca spasmodica dell’espansione del

proprio controllo, si abbatte nuovamente sul fragile confine ucraino. Tornano

a farsi insistenti le richieste di chiarimenti da parte degli USA e il terrore di un

aumento dei prezzi dell’energia si somma alla già spaventosa impennata di

quelli per le materie prime. Il rischio di un'ulteriore escalation che vada al di

là delle prove muscolari è concreta, ma noi europei come reagiamo a ciò?

Ancora in queste settimane siamo seduti in un angolo a Ginevra ad

osservare Biden e Putin che discutono sul destino del nostro continente.

Allo stesso modo perché, nonostante i continui smacchi da parte di dittatori

quali Lukashenko, Erdogan e altri personaggi più o meno autoritari tra le

nostre stesse mura, non riusciamo a rispondere?

Se il nostro è un problema culturale, da cosa deriva?

Una delle risposte più accreditate è certamente che la ritrosia alla guerra

nasca dal fatto che una società che si apre al commercio, alla libera

circolazione di merci e individui non solo non veda più di buon occhio il

conflitto ma che addirittura lo ritenga assolutamente dannoso. Al contrario

delle autocrazie non necessitiamo di fondare i nostri ideali sulla forza e di

inventare propaganda sulla conquista. Questa spiegazione sta alla base della

pace che nell’Europa (perlomeno occidentale) perdura da oltre mezzo

secolo. In un mondo ideale di “Società aperta” e interscambio quindi il

motivo che porta a maggiore ricchezza e benessere è anche lo stesso che

frena i conflitti armati. Il problema è che questo non è un mondo ideale e una

comunità che ripudia qualunque prova di forza, per quanto nobile, si troverà

in estremo svantaggio di fronte a potenze che sull’espansionismo territoriale

e bellico basano ancora la propria cultura e narrazione. La pandemia l’ha

dimostrato, il benessere ha portato a dimenticare cosa voglia dire una

situazione d’emergenza e ai sacrifici che essa richiede. Noi ci siamo

dimenticati cosa sia la guerra, non tanto quanto evento ma quanto

sensazione (sempre per questo spuntano ovunque ingenue apologie alla

figura eroica del soldato, al sacrificio, alla leva, alla guerra stessa).

Quale che sia la spiegazione le conseguenze sono sotto i nostri occhi. Per

anni in Italia il ritornello è stato “Non ci sono soldi? tagliamo le spese

militari”, discorso che ci ha portato a scendere allo zero virgola della spesa

pubblica nell’esercito con l’effetto di avere una forza armata esigua e

obsoleta. Abbiamo trasformato la sicurezza militare in un esercizio simbolico,

in sfavillanti parate, in sanzioni pressoché inutili e all’accodarci alle imprese

americane quando ci sembra che i loro interessi coincidano con i nostri

(condividendo anche parecchie scelte meschine).

L’Italia, così come l’Europa, ha perso totalmente la sua competitività sul

piano tecnologico militare e questo si è tradotto in mancanza di peso

diplomatico e di deterrenza negli scontri che riguardano il nostro destino.

Nel frattempo al confine con la Polonia (altra nazione perennemente

vacillante tra i vantaggi economici europei e una tendenza autoritaria e

nazionalista) accade una tragedia umanitaria di cui abbiamo smesso persino

di parlare e dalla quale anche Medici senza frontiere fugge inorridita.

Questa mancanza di personalità poi spinge a piegarci anche dinnanzi i

capricci di questo o quel personaggio di turno riguardo i diritti civili e i

principi fondamentali all’interno della nostra stessa comunità (e porta

maldestramente le forze politiche, che della mancanza di peso diplomatico

ne soffrono, ad esaltare questi “capi di governi” esteri ergendoli a protettori

ideali dell’identità europea).

Di fronte a tutto questo alla fine la risposta politica si divide in due fazioni

principali. Da un lato un discorso esotista che tendiamo a chiamare di

“sinistra”, per cui tutto quello che è occidentale, tutto quello che è influenza

europea, tutto quello che è libero mercato e impresa è dannoso ed è il male

del mondo. Una narrazione che porta inevitabilmente all’immobilismo,

all’impotenza politica (oltre che ad un autolesionismo assurdo) e alla

mancanza totale di iniziativa lì dove un intervento militare nostro significa

solo morte, colonialismo e sfruttamento.

Dall’altra un discorso nostalgico e tradizionalista che chiameremmo di

“destra”, il quale non sa fare altro che riproporre modelli di mezzo secolo fa

(se non prima) e chiudersi a riccio in un involucro per proteggere un’idea di

Europa tribale e isolata in una teca di cristallo marchiata “si stava meglio

quando si stava peggio”. “Destra” che anzi osanna (al limite della sindrome

di Stoccolma) gli stessi despoti che dell’Europa vorrebbero brandelli.

Una narrazione che poi porta a sfogare la frustrazione, dovuta all’irrilevanza,

sui deboli e i disperati che al confine chiedono di entrare.

Il risultato di questa diatriba sterile è che, qualunque cosa succederà in

Ucraina, in Medio Oriente, nel Mediterraneo o in Bielorussia, molto

probabilmente noi non avremo voce in capitolo.

La domanda da porsi oggi non è se vogliamo fare la guerra ma se saremmo

disposti a condurla e sopportarla nel caso in cui fossimo obbligati.

Tra dittatori che minacciano le nostre frontiere e le nostre economie sotto

l’ala protettrice dei grandi d’oriente e ondate umane di profughi smosse dalla

crescente instabilità geopolitica la risposta non può essere né l’indifferenza

autolesionista né il rannicchiarsi pavidamente dietro un muro di cartapesta.

Necessitiamo di credibilità, non per andare in guerra, sviluppare la follia

americana del dominio tecnologico o la glorificazione del conflitto armato,

ma per essere in grado di mandare un segnale concreto.

Basta appeasement.

Lungi dall’essere un discorso reazionario e guerrafondaio questa è,

paradossalmente, la parafrasi di un antico detto: si vis pacem para bellum.

Articolo di Gabriele Doria

 
 
 

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