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UNO, NESSUNO E CENTOMILA IDENTITARISMI



È nata una nuova identità, quella dei membri di Politicamente, la quale va

rivendicata, riconosciuta e protetta in quanto unica in grado di narrare il

mondo con chiarezza e trasparenza!

Apriamo così, con una battuta (ma forse non troppo), la seconda parte della

nostra riflessione sull’identitarismo. La scorsa volta avevamo analizzato

infatti il concetto dello storytelling, la capacità subdola e dannosa di

raccontarci chi siamo invece di viverlo e scoprirlo giorno per giorno.

Il primo chiarimento da fare oggi invece è su una parola che torna ricorrente

nella retorica identitaria odierna: rivendicazione. Lo faremo dando corpo al

discorso con qualche esempio concreto (ognuno necessiterebbe di articoli

interi). La più grande aspirazione degli innumerevoli gruppi identitari, dal più

antico al neonato, è in effetti rivendicare la propria presunta posizione nel

mondo. Perché l’esasperazione di questo concetto è problematica e in che

modo l’inarrestabile genesi di identità “contro” è un pericolo?

Il fulcro della questione è ovviamente la collettivizzazione identitaria, la

trasformazione dell’io intimo in un racconto comune.

Le identità collettive sono state molto spesso un importante collante per le

comunità nel corso della storia, queste si sono basate su caratteri evidenti

dei soggetti (in primis quelli fenotipici, in secundis le convinzioni religiose e

politiche). L’identità è stata un cappello che si indossava sin dalla tenera età

e che, prendendo le mosse da alcuni dati fattuali (luogo di nascita, famiglia,

ceto) costruiva una narrazione sul soggetto.

Dall’integrazione dei tratti culturali si è poi passato ad identità via via più

eteree, da quella di popolo, di gregge a quella di classe.

Ad oggi questo fenomeno è esploso, al punto tale da polverizzare totalmente

l’individuo, il suo volere, le sue responsabilità, le sue iniziative personali. Così

la corsa all’identitarismo è divenuta da un lato una gara a risposte semplici,

accettazione e dall’altro al potere potenzialmente infinito della narrazione.

Tutte le identità moderne nascono e si fondano infatti su due principi

cardine: il vittimismo e la guerra totale contro il resto della società.

Un primo esempio è certamente l’identità nazionale, quella che poi spesso

coincide con l’identità etnica, la quale ci classifica in base alla comunità in

cui siamo nati. L’identità nazionale, che come le altre tenta di rispondere alla

domanda “chi sono io?”, ha come presupposto l’obbedienza ad una serie di

regole (istituzionali prima, ideologiche poi). Essa tenta di ancorarci ad una

visione lineare di “popolo” ed esplode solitamente lì dove il malcontento

cresce. La trasformazione dell’individuo nell’ingranaggio utile soltanto al

destino della nazione, con la giustificazione di un’anima etnica o razziale che

viene prima della realtà stessa, sta alla base di ogni propaganda nazionalista.

Di fatto posso avere stima dei miei antenati, posso essere contento di

parlare una determinata lingua, posso trovarmi a mio agio in un dato

contesto culturale; se questo però diventa motivo di orgoglio e identità

personale allora si trasforma in un’illusione. Tratti particolari visibili oggi sono

la vittimizzazione, “il mondo ci schiaccia” e la caccia all’uomo, “Tu sei di

quelli che vogliono la fine del popolo X”. L’estremizzazione di questo

presupposto identitario spinge infatti a vedere come “traditore” chiunque

non rispetti ogni dettame culturale, tradizionale, linguistico o ideologico.

“Non sei un vero italiano se non sei come noi, se non fai quello che facciamo

noi, se non la pensi così”.

Ci sono poi le nuove identità basate su sessualità e genere, le quali

emergono dalle lodevoli battaglie civili del secolo scorso e con il termine

dell’intersezionalità oggi hanno sovrapposto diverse identità sociali

accomunandone le discriminazioni a livello sistemico.

Diviene dunque sempre più diffusa la creazione di identità collettive a cui

assegnare ogni connotato negativo, ogni responsabilità riguardo ai mali del

mondo. Questo perché per ottenere i vantaggi dell’essere vittima oppressa

c’è sempre bisogno di un oppressore e quanto più questo è sistemico e

complicato da sconfiggere, tanto più la narrazione della lotta potrà

proseguire e farsi serrata. Il problema fondamentale della modalità di molte

delle lotte odierne per i diritti è il mascherare la colpevolizzazione e la

degradazione dell’interlocutore con la sensibilizzazione. Addirittura nella

“Critical Race Theory”, sempre più in voga negli States, si è colpevoli a

priori, colpiti da pregiudizi e razzismo in base al fatto di essere bianchi.

Razzismo, sessismo e omofobia non visti come una condizione endemica

dell’individuo ma insita nell’animo di chiunque faccia parte della “classe

dell’oppressore”. Di fatto (e lo si è visto ripetutamente) l’unico risultato che si

ottiene da queste follie è quello di polarizzare ulteriormente chi dovrebbe

essere sensibilizzato e si sente invece criminalizzato. Infine (solo per

questione di spazio) il fenomeno della body positivity, nato come reazione

alla discriminazione sul fisico e divenuta spesso un motivo di stasi (con

anche gravi ripercussioni su salute fisica e mentale) lì dove la mia identità

viene a coincidere definitivamente con l’etichetta datami.

Diventare vittime per ottenere, con il minimo sforzo, maggiori privilegi.

Insomma, per quanto ci si possa convincere di essere dal “lato giusto”, di

avere in mano gli unici veri valori e di essere esenti da questa diatriba, se ne

è in realtà immersi fino al collo. Una guerra che pare di fatto essere tra

tifoserie, la cui vittoria assegna l’ambito premio della superiorità morale.

Coma ho cercato di analizzare nell’articolo scorso, il definirsi con un’identità

basata su narrazioni apparenti o fattuali (Sono italiano, Sono obeso, Sono

omosessuale, Sono ignorante, Sono democristiano) è una risposta alle

incertezze e alle sofferenze. Questa cristallizzazione ci porta, più o meno

inconsciamente ad una totale incapacità di cambiare, di evolverci, di

migliorarci o aprirci. L’insicurezza nella comprensione della propria natura

psicologica spinge a compensare certi vuoti con riti, idee e conquiste già

ben impacchettati e serviti. Con ideali e macchiette che hanno come unico

apparente pregio quello di non essere contraddittori (cosa che l’essere

umano è invece fino al midollo). Trascinare la propria instabilità e frustrazione

nella comunità, non più come mezzo di confronto e crescita bensì di

conferma, spinge poi a giustificare le mancanze a cui dovremmo far fronte

nella nostra vita.

Proprio per questo, quando la realtà tenta di svegliarci da questo sogno, noi

reagiamo male e trasformiamo il gruppo in un mezzo d’attacco verso tutti.

Così il mondo diventa un’ombra del patriarcato, un’aberrazione della

globalizzazione, un covo di discriminatori e burattini del capitalismo o dei

poteri forti. Ogni debolezza si trasforma in un’arma da usare contro chi o

cosa credo quell’identità me la voglia togliere, contro chi non vuole

riconoscerne i privilegi e la superiorità.

Contro il maledetto mondo che non vuole accettare il mio desiderio di stasi,

la mia incapacità di leggermi dentro, la mia ricerca di risposte semplici.

Il problema non sono le culture, le battaglie per i diritti, le tradizioni, le

sofferenze reali ma la creazione di una narrazione che su questi presupposti

costruisce superiorità morale, titoli d’onore, vittime sacrificali.

Quest’idea ci fossilizza in una visione del mondo parziale e superficiale e

oltre a non fornire alcuna alternativa reale ai problemi ne crea di nuovi.

Abbiamo un bisogno disperato di smettere di consegnare le nostre

convinzioni, la nostra natura e le nostre vite a una storia che ha già deciso

ciò che siamo e ciò che faremo. Personalmente non smetterò mai di criticare

la visione antropologica povera che questo genere di identitarismo

promuove, quella di un individuo che non sa ciò che è bene, un soggetto

vuoto e incapace di modellare il mondo se non seguendo schemi predefiniti

o il superuomo illuminato di turno. Non abbiamo bisogno di un timoniere, la

nostra natura e la nostra personalità non sono già determinate. L’illuminismo

ha rievocato la ragione, forse sarebbe meglio rispolverare questo concetto

sbiadito prima che anche l’ultimo barlume di indipendenza cada ancora tra le

ceneri di queste estremizzazioni suicide.

Articolo di Gabriele Doria

 
 
 

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