UNO, NESSUNO E CENTOMILA IDENTITARISMI
- politicamenteit
- 15 mar 2022
- Tempo di lettura: 5 min
È nata una nuova identità, quella dei membri di Politicamente, la quale va
rivendicata, riconosciuta e protetta in quanto unica in grado di narrare il
mondo con chiarezza e trasparenza!
Apriamo così, con una battuta (ma forse non troppo), la seconda parte della
nostra riflessione sull’identitarismo. La scorsa volta avevamo analizzato
infatti il concetto dello storytelling, la capacità subdola e dannosa di
raccontarci chi siamo invece di viverlo e scoprirlo giorno per giorno.
Il primo chiarimento da fare oggi invece è su una parola che torna ricorrente
nella retorica identitaria odierna: rivendicazione. Lo faremo dando corpo al
discorso con qualche esempio concreto (ognuno necessiterebbe di articoli
interi). La più grande aspirazione degli innumerevoli gruppi identitari, dal più
antico al neonato, è in effetti rivendicare la propria presunta posizione nel
mondo. Perché l’esasperazione di questo concetto è problematica e in che
modo l’inarrestabile genesi di identità “contro” è un pericolo?
Il fulcro della questione è ovviamente la collettivizzazione identitaria, la
trasformazione dell’io intimo in un racconto comune.
Le identità collettive sono state molto spesso un importante collante per le
comunità nel corso della storia, queste si sono basate su caratteri evidenti
dei soggetti (in primis quelli fenotipici, in secundis le convinzioni religiose e
politiche). L’identità è stata un cappello che si indossava sin dalla tenera età
e che, prendendo le mosse da alcuni dati fattuali (luogo di nascita, famiglia,
ceto) costruiva una narrazione sul soggetto.
Dall’integrazione dei tratti culturali si è poi passato ad identità via via più
eteree, da quella di popolo, di gregge a quella di classe.
Ad oggi questo fenomeno è esploso, al punto tale da polverizzare totalmente
l’individuo, il suo volere, le sue responsabilità, le sue iniziative personali. Così
la corsa all’identitarismo è divenuta da un lato una gara a risposte semplici,
accettazione e dall’altro al potere potenzialmente infinito della narrazione.
Tutte le identità moderne nascono e si fondano infatti su due principi
cardine: il vittimismo e la guerra totale contro il resto della società.
Un primo esempio è certamente l’identità nazionale, quella che poi spesso
coincide con l’identità etnica, la quale ci classifica in base alla comunità in
cui siamo nati. L’identità nazionale, che come le altre tenta di rispondere alla
domanda “chi sono io?”, ha come presupposto l’obbedienza ad una serie di
regole (istituzionali prima, ideologiche poi). Essa tenta di ancorarci ad una
visione lineare di “popolo” ed esplode solitamente lì dove il malcontento
cresce. La trasformazione dell’individuo nell’ingranaggio utile soltanto al
destino della nazione, con la giustificazione di un’anima etnica o razziale che
viene prima della realtà stessa, sta alla base di ogni propaganda nazionalista.
Di fatto posso avere stima dei miei antenati, posso essere contento di
parlare una determinata lingua, posso trovarmi a mio agio in un dato
contesto culturale; se questo però diventa motivo di orgoglio e identità
personale allora si trasforma in un’illusione. Tratti particolari visibili oggi sono
la vittimizzazione, “il mondo ci schiaccia” e la caccia all’uomo, “Tu sei di
quelli che vogliono la fine del popolo X”. L’estremizzazione di questo
presupposto identitario spinge infatti a vedere come “traditore” chiunque
non rispetti ogni dettame culturale, tradizionale, linguistico o ideologico.
“Non sei un vero italiano se non sei come noi, se non fai quello che facciamo
noi, se non la pensi così”.
Ci sono poi le nuove identità basate su sessualità e genere, le quali
emergono dalle lodevoli battaglie civili del secolo scorso e con il termine
dell’intersezionalità oggi hanno sovrapposto diverse identità sociali
accomunandone le discriminazioni a livello sistemico.
Diviene dunque sempre più diffusa la creazione di identità collettive a cui
assegnare ogni connotato negativo, ogni responsabilità riguardo ai mali del
mondo. Questo perché per ottenere i vantaggi dell’essere vittima oppressa
c’è sempre bisogno di un oppressore e quanto più questo è sistemico e
complicato da sconfiggere, tanto più la narrazione della lotta potrà
proseguire e farsi serrata. Il problema fondamentale della modalità di molte
delle lotte odierne per i diritti è il mascherare la colpevolizzazione e la
degradazione dell’interlocutore con la sensibilizzazione. Addirittura nella
“Critical Race Theory”, sempre più in voga negli States, si è colpevoli a
priori, colpiti da pregiudizi e razzismo in base al fatto di essere bianchi.
Razzismo, sessismo e omofobia non visti come una condizione endemica
dell’individuo ma insita nell’animo di chiunque faccia parte della “classe
dell’oppressore”. Di fatto (e lo si è visto ripetutamente) l’unico risultato che si
ottiene da queste follie è quello di polarizzare ulteriormente chi dovrebbe
essere sensibilizzato e si sente invece criminalizzato. Infine (solo per
questione di spazio) il fenomeno della body positivity, nato come reazione
alla discriminazione sul fisico e divenuta spesso un motivo di stasi (con
anche gravi ripercussioni su salute fisica e mentale) lì dove la mia identità
viene a coincidere definitivamente con l’etichetta datami.
Diventare vittime per ottenere, con il minimo sforzo, maggiori privilegi.
Insomma, per quanto ci si possa convincere di essere dal “lato giusto”, di
avere in mano gli unici veri valori e di essere esenti da questa diatriba, se ne
è in realtà immersi fino al collo. Una guerra che pare di fatto essere tra
tifoserie, la cui vittoria assegna l’ambito premio della superiorità morale.
Coma ho cercato di analizzare nell’articolo scorso, il definirsi con un’identità
basata su narrazioni apparenti o fattuali (Sono italiano, Sono obeso, Sono
omosessuale, Sono ignorante, Sono democristiano) è una risposta alle
incertezze e alle sofferenze. Questa cristallizzazione ci porta, più o meno
inconsciamente ad una totale incapacità di cambiare, di evolverci, di
migliorarci o aprirci. L’insicurezza nella comprensione della propria natura
psicologica spinge a compensare certi vuoti con riti, idee e conquiste già
ben impacchettati e serviti. Con ideali e macchiette che hanno come unico
apparente pregio quello di non essere contraddittori (cosa che l’essere
umano è invece fino al midollo). Trascinare la propria instabilità e frustrazione
nella comunità, non più come mezzo di confronto e crescita bensì di
conferma, spinge poi a giustificare le mancanze a cui dovremmo far fronte
nella nostra vita.
Proprio per questo, quando la realtà tenta di svegliarci da questo sogno, noi
reagiamo male e trasformiamo il gruppo in un mezzo d’attacco verso tutti.
Così il mondo diventa un’ombra del patriarcato, un’aberrazione della
globalizzazione, un covo di discriminatori e burattini del capitalismo o dei
poteri forti. Ogni debolezza si trasforma in un’arma da usare contro chi o
cosa credo quell’identità me la voglia togliere, contro chi non vuole
riconoscerne i privilegi e la superiorità.
Contro il maledetto mondo che non vuole accettare il mio desiderio di stasi,
la mia incapacità di leggermi dentro, la mia ricerca di risposte semplici.
Il problema non sono le culture, le battaglie per i diritti, le tradizioni, le
sofferenze reali ma la creazione di una narrazione che su questi presupposti
costruisce superiorità morale, titoli d’onore, vittime sacrificali.
Quest’idea ci fossilizza in una visione del mondo parziale e superficiale e
oltre a non fornire alcuna alternativa reale ai problemi ne crea di nuovi.
Abbiamo un bisogno disperato di smettere di consegnare le nostre
convinzioni, la nostra natura e le nostre vite a una storia che ha già deciso
ciò che siamo e ciò che faremo. Personalmente non smetterò mai di criticare
la visione antropologica povera che questo genere di identitarismo
promuove, quella di un individuo che non sa ciò che è bene, un soggetto
vuoto e incapace di modellare il mondo se non seguendo schemi predefiniti
o il superuomo illuminato di turno. Non abbiamo bisogno di un timoniere, la
nostra natura e la nostra personalità non sono già determinate. L’illuminismo
ha rievocato la ragione, forse sarebbe meglio rispolverare questo concetto
sbiadito prima che anche l’ultimo barlume di indipendenza cada ancora tra le
ceneri di queste estremizzazioni suicide.
Articolo di Gabriele Doria
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